LA STELLA DI BETLEMME - Racconto di Giovanna Santarsiero

 



Oltre il caos travolgente della città si estendeva la terra che si tingeva di infinite sfumature di verde, da quelle più accese a quelle più cupe, che prendevano o perdevano brillantezza in base alla presenza della luce calda che il sole emanava. Fra tutto quel verde, intriso di vita animale, si espandeva un lago le cui acque riflettevano l’azzurro del cielo, alle volte terso e altre trapuntato di nuvole bianche gonfie come un simpatico zucchero a velo che si avvolge intorno ad un esile bastoncino di legno stretto fra le tenere mani di un bambino, e che celava segreti e misteri che il resto del mondo ignorava.

Era un posto che amavo particolarmente e che avevo scoperto per puro caso durante una delle mie consuete passeggiate nella natura, la mia via di fuga dalla frenesia della quotidianità cittadina che in un modo o nell’altro condizionava la mia tranquillità. In quel lago, la mente e l’anima trovavano rifugio per dare vigore alla pace di cui avevano tremendamente bisogno perdendosi nel silenzio come un bosco silente dopo una violenta pioggia tempestosa.

La mia vita scorreva normalmente, avevo una bella famiglia, molti amici, un  lavoro. Tutto normale, forse troppo normale con una tendenza alla monotonia, e nessuna novità all’orizzonte. Sul lavoro mi spendevo molto, eppure non riuscivo a fare l’ upgrade che immaginavo e poi mancava una figura, quella di un uomo al mio fianco. Le mie amiche erano tutte fidanzate ed io invece non lo ero. Dipendeva tutto da quei fastidiosi chiletti di troppo? Chissà!

Anche quel giorno decisi di immergermi nella natura e alleggerire la mia mente, da pensieri che potevano intaccare il mio equilibrio, e il mio corpo, nella speranza di bruciare quel grasso in eccesso che stava diventando un tarlo con il quale convivere diveniva sempre più difficoltoso.

In quel paesaggio meraviglioso il rumore chiassoso della città si spegneva e veniva sostituito dalla voce della natura come il cinguettio degli uccellini, il fruscio delle foglie mosse dal vento, il cigolio riprodotto dai rami e rumori che simpatici animaletti selvatici riproducevano muovendosi abilmente nel sottobosco. Percorsi alcuni metri di strada asfaltata, imboccai il sentiero naturale che si snodava fra gli alberi e che conduceva, dalla via principale, all’interno del bosco.

Dopo un breve tratto, si apriva dinanzi ai miei occhi una distesa verde al centro della quale maestoso primeggiava lui, il meraviglioso lago incantato. Lasciai che le iridi si impregnassero totalmente di quella meraviglia e tirando su con il naso, respirai a pieni polmoni quell’aria buona che mi rasserenava. Solo in un secondo momento  mi resi conto di non essere sola, infatti, in lontananza vidi un’esile donna, dai lunghi capelli rossi, che le cadevano giù, lungo le spalle, come una cascata e la cui pelle diafana, simile al candido bianco pallore della luna, era avvolta da un abito nero che scendeva morbido seguendo le curve della sua silhouette lasciando libere le gambe dalle ginocchia in giù e creando un armonioso contrasto con i suoi colori.

Con quelle luci rosee generate da un tramonto acceso, che sembrava un dipinto nato dalle virtuose mani di Van Gogh, la donna apparve ai miei occhi come una dea dalla bellezza disarmante capace di togliere il fiato.

La guardai con incanto, come una bambina stupita ed incuriosita che si trova di fronte un giochino nuovo,  senza farmi notare. Probabilmente era appena arrivata anche lei, magari da qualche altro sentiero di cui ignoravo l’esistenza. Restai affascinata dalla scena: si tolse delicatamente le scarpe e, tenendole in mano, iniziò ad avvicinarsi con passi lenti e felpati verso la riva. Mentre lo faceva guardava a terra, il capo chino e  un atteggiamento che trasmetteva uno strano senso di angoscia percettibile anche a metri di distanza. Quando la vicinanza con la riva si era accorciata a tal punto da separare i suoi piedi da quelle oscure acque solo un palmo di mano, la giovane donna, lasciò cadere svogliatamente al suolo le scarpe, che teneva fra le mani, quasi come fossero un gravoso e ingombrante fardello e con esse si lasciò cadere anch’ella per entrare in contatto con l’umida erba che segnava il confine. Si sedette dolcemente e avvicinò le ginocchia al petto, stringendole a sé in un abbraccio, come a volersi avvolgere da sola in un gesto di conforto capace di poterla risollevare da quell’angoscia a cui non riuscivo a dare un nome o una spiegazione. Come potevo dopotutto? Non conoscevo affatto quella donna che aveva comunque attirato totalmente la mia attenzione.

Di fronte a quella visione mi sentii di troppo e allora decisi di andare via e di proseguire il mio cammino seguendo un percorso alternativo a quello programmato. La passeggiata durò di conseguenza meno del previsto, avendo eliminato la consueta pausa al lago che si prendeva parte del mio tempo, pertanto approfittai per fare un bel bagno caldo prima di cena.

Non riuscivo ad accantonare quello che mi era capitato al lago. Era mia abitudine leggere un buon libro prima di addormentarmi, almeno un capitolo me lo imponevo per non perdere quella bella abitudine che coltivavo sin da bambina, nonostante gli anni di studio e la stanchezza accumulata a lavoro. Tuttavia, malgrado la buona volontà, una volta poggiata la testa sul morbido cuscino, guardai il soffitto e l’immagine di quella bellissima donna avvolta da una tristezza disarmante fece capolino fra i miei pensieri, portando con sé alcune domande spinte dalla mia solita curiosità.

Cosa poteva esserle accaduto? Una donna così bella come poteva essere così sola e triste?

Con questi quesiti i miei occhi si chiusero lentamente trascinandomi fra le braccia di Morfeo, pronto a condurmi in un sonno ristoratore e verso sogni fantasiosi.

 

Nei giorni successivi andai quotidianamente al lago e puntualmente la scena a cui avevo assistito giorni prima, si ripeteva nuovamente seguendo la medesima sequenza. La ragazza arrivava lì al calar del sole e si accomodava su quella riva per perdersi con lo sguardo fra quelle acque alla ricerca di chissà cosa.

Un giorno, però, mi avvicinai di più e nel farlo produssi involontariamente un rumore che, seppur quasi  impercettibile, riuscì comunque ad attirare l’attenzione della donna che inevitabilmente si voltò verso di me. A quel punto uscii allo scoperto e cercai di inventare una scusa plausibile.

«Scusami tanto, passavo qui per caso non volevo disturbarti!» le dissi banalmente.

«È un luogo pubblico, non devi assolutamente scusarti con me» mi rispose.

Ebbi la sensazione di non infastidire, forse dalla dolcezza che riconobbi nella sua voce e di come si fosse posta verso di me e così mi avvicinai lentamente verso di lei accomodandomi al suo fianco.

«Mi chiamo Lidia ehm . . . ad essere sincera, non è la prima volta che ti trovo qui. Sono diversi giorni ormai che mi dirigo  al lago. È un posto che amo particolarmente perché mi da pace. Così mi è capitato di trovarti e ti ho sempre guardata da lontano. La tua bellezza non passa inosservata ma emerge anche altro. Perché sei così triste?»

La giovane donna, che da vicino risultava essere anche più bella di come appariva in lontananza, posò i suoi occhi scuri nei miei sviluppando ulteriormente l’empatia che in qualche modo avevo già innescato nei suoi confronti, in maniera del tutto inspiegabile. Con un amaro sorriso mi chiese.

«Hai notato la mia tristezza per via del colore dell’ abito che indosso?»

Rimasi sorpresa da quella domanda. Perché mai un capo di abbigliamento doveva trasmettere necessariamente un’emozione così netta?

«Ovviamente no!» risposi «Ho percepito la tua sofferenza dal tuo atteggiamento e per come te ne stai qui, in riva a questo lago, con lo sguardo fisso in un punto preciso e ora che ti sono vicina, nei tuoi occhi c’è un velo che offusca quella luce che generalmente dovrebbe esserci»

Lei mi guardò intensamente ancora una volta prima di riportare lo sguardo verso il lago.

«Quella luce c’è lì dove esiste la speranza, la gioia, la vita . . . nei miei occhi non la noti perché sono tremendamente triste e questo perché la vita mi ha dapprima dato tanto e poi mi ha tolto tutto»

Dopo aver dato quella risposta vaga, ma intrisa di dolore e malinconia, la giovane donna dai capelli rossi piombò nuovamente in un silenzio assordante, un chiaro segnale di chiusura. Dopotutto perché mai avrebbe dovuto raccontarmi qualcosa di così intimo e personale? Ero solo una sconosciuta in fondo.

«Non so la ragione della tua sofferenza ma posso dirti che mi dispiace molto!» le dissi, come se fosse necessario farlo.

Restai lì, al suo fianco ancora per un po', guardando il suo riflesso in quello specchio acquoso e cercando di darle presenza e conforto. Nel silenzio mi levai lentamente, come a non voler inquinare, con bruschi rumori, quello stato silente di pace e andai via lasciandola sola, immersa nei suoi pensieri. Aveva bisogno di attraversare il suo dolore nella sua intimità.

Tornai verso casa ripensando a lei costantemente e soprattutto a quelle parole “la vita mi ha dato tanto ma mi ha tolto tutto”.

Serve davvero etichettare ogni emozione per comprenderne l’intensità?

La risposta è no, perché, seppure non conoscessi la storia di quella giovane donna la sua sofferenza aveva toccato la mia sensibilità, come un un’arpista sfiora delicatamente e con maestria le corde del suo strumento producendo una melodia capace di arrivare dritta all’anima di chi ascolta, facendola vibrare. Inevitabilmente pensai a come sia curioso l’essere umano. Quante volte su questioni spicciole e di poco conto riusciamo a ricamarci improbabili quanto insormontabili tragedie che non hanno nulla a che spartire con la drammaticità di lotte interiori che molte persone sono costrette ad affrontare nella propria vita, nonostante il mondo continui inarrestabile la propria corsa, fregandosene se le ginocchia sono a terra e rialzarsi risulta complicato se non impossibile?

Spesso mi lamentavo della mia fisicità, dell’essere ancora single e adesso mi rendevo conto di quanto fossi frivola nel fare di questi piccoli problemi un’Odissea.

 

Seppure l’empatia sia una caratteristica predominante nel mio carattere e quella donna aveva catturato i miei pensieri, resto pur sempre un essere umano e va da sé che, inevitabilmente, con lo scorrere dei giorni la quotidianità mi  prese totalmente con i suoi ritmi frenetici portandomi lontana da quei pensieri e di conseguenza le mie attenzioni si incanalarono tutte verso un’altra direzione.

Diversi furono i cambiamenti che si mostrarono all’orizzonte, come se quell’incontro al lago fosse stato il via di un capovolgimento radicale della mia vita.

Senza rendermene conto, a distanza di un anno,  la mia vita migliorò notevolmente: ottenni, dopo anni di sacrifici fatti senza remore e ripensamenti, una promozione nello studio associato di avvocati in cui lavoravo, mi iscrissi in una palestra non molto distante da casa e con un programma di allenamento mirato migliorai anche il mio aspetto fisico e infine, non per ordine di importanza, avevo finalmente trovato Aurelio, un ragazzo speciale che aveva conquistato il mio cuore sin da subito e che mi regalava tutto l’amore di cui avevo bisogno. Insomma, tutto scorreva meravigliosamente bene, come se le stelle si fossero finalmente posizionate in cielo a mio favore aprendomi una per una tutte le porte propizie. Mi sentivo realizzata e soddisfatta della mia vita, dei traguardi raggiunti e di quello che stavo diventando non trovando più alcuna ragione a cui aggrapparmi per potermi lamentare.

Tuttavia, la felicità umana è come l’ombra prodotta dalla luce del giorno che svanisce con l’arrivo della sera e anche il mio momento di gloria stava per volgere al termine. Il destino aveva in serbo per me una dura prova da superare.

Tutto avvenne in una giornata di inizio estate, era il 26 giugno, il giorno prima del mio compleanno.

Quella mattina il cielo era di un azzurro terso e il sole brillava già alto nel cielo. Erano le 09:00 del mattino e in auto con Aurelio, che quella mattina aveva deciso di accompagnarmi, stavo per iniziare come di consueto una nuova giornata di lavoro, l’ultima di quella settimana. Giunti di fronte allo studio in cui lavoravo mi voltai verso di lui.

«Ci vediamo a pranzo amore, così possiamo poi partire per il nostro weekend!»

«Certo amore. Buona giornata!» mi disse con un sorriso smagliante, quel sorriso che mi aveva conquistata sin dal nostro primo appuntamento e che non resistetti dal baciare dolcemente in quel momento. Lo amavo davvero tanto e questo perché mi capiva, mi ascoltava e mi regalava tutte le attenzioni che avevo da sempre desiderato ricevere.

Scesi dall’auto, chiusi la portiera e avvertii la necessità inspiegabile di salutarlo ancora e così lo feci prima di voltarmi e incamminarmi verso il portone principale dello studio.

Feci appena due passi quando sentii all’improvviso un botto violentissimo che fece vibrare l’aria intorno a me. Mi voltai e dinanzi i miei occhi si palesò una scena agghiacciante a cui mai e poi mai avrei voluto assistere. Un’auto impazzita si era schiantata frontalmente contro quella del mio Aurelio.

Buio.

Mi portai le mani sul viso e urlai con tutta la forza che avevo in corpo. Mi diressi verso l’auto ma la portiera non voleva saperne di aprirsi. Chiamai velocemente i soccorsi in cerca di un aiuto umano ma soprattutto dal cielo.

Di quello che accadde poi ricordo solo il suono delle sirene impazzite dell’autoambulanza che ci conducevano dritti all’ospedale, lui su di una barella, la corsa in sala operatoria, le mie lacrime inarrestabili, le infinite preghiere pronunciate sottovoce e l’attesa interminabile. Il tempo era lento e a tratti sembrava quasi volesse fermarsi del tutto.

Poi il medico, che aveva operato Aurelio, il mio Aurelio, uscii dalle porte scorrevoli automatiche della sala operatoria con lo sguardo scuro in volto.

«L’intervento è andato bene»

«Oh! Grazie al cielo!» dissi con un cenno di speranza nella voce che venne immediatamente spazzato via dalle parole che il medico pronunciò immediatamente poi.

«Signora,le condizioni di Aurelio sono critiche. Verrà trasferito in terapia intensiva sperando che superi la notte. Noi abbiamo fatto il possibile, adesso attendiamo solo un miracolo. Deve essere forte e iniziare a preparasi al peggio. Mi dispiace!»

Mi diede una pacca sulla spalla trasmettendomi tutta la sua solidarietà con lo sguardo, uno sguardo che non ho mai più dimenticato.

Sentii mancare la terra sotto i miei piedi. Quelle che seguirono furono ore di panico e dolore, un dolore che non riuscivo a quantificare né tantomeno a descrivere. Le lacrime continuavano a scendere copiose dagli occhi rigando il viso di sale amaro e stare in quel corridoio gelido in attesa di un miracolo mi mandava letteralmente in confusione. Milioni di domande e nessuna risposta. L’aria mancava e alternavo momenti di speranza a quelli di folle angoscia che mi facevano pensare al peggio e allora mi sentivo sprofondare.

In quel momento comparve, fra i miei veloci pensieri confusi, l’immagine della donna dai capelli rossi. Avvertii la necessità di raggiungerla e così mi diressi al lago. Il tramonto stava esplodendo e la trovai lì, come un anno prima, seduta a guardare quelle acque che conoscevano probabilmente il perché della sua sofferenza. Tolsi dai miei piedi le scarpe, proprio come faceva di consueto lei, mi avvicina e poi mi accomodai al suo fianco in silenzio.

«Ti aspettavo» mi disse senza voltarsi.

«Ah si?» domandai incuriosita.

«Si» fu la sua unica risposta mentre continuava ad osservare un punto preciso.

Restammo per qualche minuto in silenzio, un silenzio diverso da quello del nostro primo incontro, un silenzio complice. Guardai il mio riflesso in quello specchio d’acqua. Il mio viso era contratto dal dolore, dal terrore, i miei occhi erano gonfi dopo aver versato tutte le lacrime che avevo in corpo. Notai solo in quel momento la similitudine dei nostri sguardi entrambi persi e con quel velo che nascondeva tutto il resto. A quel punto fui io a spezzare quell’incantesimo.

«Non so nemmeno quale sia il tuo nome e nemmeno quale possa essere la tua storia eppure in te io mi riconosco, soprattutto adesso».

A quelle parole lei mi guardò e i nostri occhi si incontrarono come se quel momento fosse stato scritto dal destino.

«Mi sono sempre chiesta quale fosse la pena che portavi dentro, almeno l’ho fatto per un po'. La mia vita dal nostro incontro è cambiata sai? È migliorata. Ho avuto tutto, una promozione sul lavoro, un uomo speciale. Si chiama Aurelio. È meraviglioso» iniziai a piangere.

Lei mi guardò con dolcezza e mi accarezzò le spalle come farebbe una sorella ma rimase in silenzio.

«Stamattina ha avuto un incidente d’auto, dinanzi i miei occhi. È stato orribile. Ho provato e provo tuttora un dolore disumano. Non so se potrò abbracciarlo ancora, se si sveglierà. Fa tutto così male»

«Lo so bene» disse lei con una calma disumana e proseguì  «Sei una persona sensibile. Hai notato la mia sofferenza da subito, a differenza di altre persone a me care che hanno visto in me debolezza ed esagerazione. Ma vedi, nella gioia e nella normalità le persone vivono senza badare troppo all’importanza della vita, dell’amore, della possibilità di avere persone accanto che ad altri è negata. Solo chi ha un animo sensibile può immedesimarsi nel prossimo altrimenti siamo tutti diversi. Quello che ci rende simili, invece, è il dolore. Quando arriva appiana le montagne e ci fa vedere oltre, ci mostra esattamente cosa voglia dire sentire un gelo nel petto che nemmeno un fuoco ardente può smorzare, sentire un groppo alla gola che non permette di deglutire nemmeno la saliva. È sentirsi bruciare dentro e voler porre fine a quel dolore che il tempo non potrà mai cancellare. Il dolore mostra a tutti la vera essenza dell’altro e ci mostra come, seppur diversi, in quel sentimento, capace di toglierci la voglia di vivere, reagiamo tutti allo stesso modo»

Ci guardammo in silenzio. Lei aveva capito esattamente cosa stessi provando. Era proprio quella sensazione.  In un attimo la mia mente tornò indietro di un anno e ripensai alle sue parole. “La vita mi ha dato tanto e mi ha tolto tutto”.

Prima che potessi chiederle cosa le fosse accaduto lei proseguì come se mi avesse letto nel pensiero.

«La mia amarezza è dovuta alla perdita dell’amore della mia vita. Venimmo un giorno qui, al lago per trascorrere un giorno diverso dal solito. Prendemmo un pedalò e iniziammo a fare un giro. Era tutto perfetto, il sole, il cielo terso e noi due, felici e spensierati. Consumammo la merenda al tramonto e all’improvviso si alzò il vento che fece volare via il foulard poggiato intorno al mio collo. Ero legata a quel foulard perché era di mia madre, deceduta prematuramente. Cercai di afferrarlo ma non riuscii a recuperarlo.

Allora Daniele, il mio amato, fece di tutto per portare in salvo quell’oggetto a me caro, se non fosse che cadde nelle profonde acque del lago. Cercai di aiutarlo ma non riuscii a fare nulla. Non sapevo nuotare. Daniele era rimasto impigliato in qualcosa e nonostante le urla nessuno corse ad aiutarci. Solo dopo diverso tempo arrivarono i soccorsi ma fu troppo tardi.»

Silenzio.

Adesso era tutto molto chiaro. Quello che stava accadendo a me lei lo aveva già subito con un epilogo tragico e irrimediabile.

«Io . . . mi dispiace molto. Come hai potuto sopravvivere a tutto questo?»

«Non lo so . . . la fede? La forza di sopravvivenza umana? La mancanza di coraggio nel fare un gesto estremo? Non te lo so dire questo. Sono qui, con la speranza che dal dolore possa nascere qualcosa di buono e probabilmente in te ho trovato proprio questo. Adesso va dal tuo Aurelio. La vostra storia deve avere un finale diverso»

Ci abbracciammo piangendo entrambe per i nostri dolori ma anche per la prova che l’altra stava affrontando. Tornai in ospedale e in quel momento di buio la luce. Aurelio era miracolosamente tornato alla vita, era salvo. La gioia che provai fu immensa e indescrivibile, della stessa portata di quel dolore che nelle ore precedenti aveva devastato ogni parte di me. Accarezzai il volto del mio amato e stetti al suo fianco sempre.

Quando tornammo a casa mi presi qualche giorno per sistemare tutto e organizzarmi.

I medici non seppero mai spiegarci come Aurelio fosse tornato alla vita. Qualcosa mi fece pensare che la responsabile di quella magia fosse lei, la donna del lago.

Un giorno attesi l’arrivo del tramonto e mi diressi  al lago nella speranza di incontrarla per raccontarle tutto e di porle alcune domande.

Quando arrivai lì della ragazza dai capelli rossi non c’era nemmeno l’ombra, bensì al posto in cui sedeva di consueto era nata la stella di Betlemme, un fiore bianco come la pelle diafana di quella donna che aveva accolto, compreso il mio dolore, nonostante stesse attraversando elle stessa una pena maggiore della mia. Che strana coincidenza pensai fra me.

Tornata a casa capii il significato di quel fiore.

Rappresentava la consolazione del dolore e la capacità di guarire da eventi tragici che la vita pone sul nostro cammino. Sorrisi. Probabilmente quel fiore rappresentava la rinascita per entrambe o forse quella donna era un’entità misteriosa che il destino aveva in mente di farmi incontrare per darmi un importante insegnamento. Chissà, questo non si saprà mai. Tuttavia, da quel giorno, continuai ad andare al lago a prendermi cura di quel fiore e a sedermi lì, accanto a lui, osservando quelle acque in ricordo di quell’incontro che mi ha cambiato la vita e che mi ha insegnato la resilienza della luce della rinascita, incapace di spegnersi e di come il dolore ci rende tutti umani.

 


 


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