Oltre il caos travolgente della città si estendeva la terra che si
tingeva di infinite sfumature di verde, da quelle più accese a quelle più cupe,
che prendevano o perdevano brillantezza in base alla presenza della luce calda
che il sole emanava. Fra tutto quel verde, intriso di vita animale, si espandeva
un lago le cui acque riflettevano l’azzurro del cielo, alle volte terso e altre
trapuntato di nuvole bianche gonfie come un simpatico zucchero a velo che si
avvolge intorno ad un esile bastoncino di legno stretto fra le tenere mani di
un bambino, e che celava segreti e misteri che il resto del mondo ignorava.
Era un posto che amavo particolarmente e che avevo scoperto per puro caso
durante una delle mie consuete passeggiate nella natura, la mia via di fuga
dalla frenesia della quotidianità cittadina che in un modo o nell’altro
condizionava la mia tranquillità. In quel lago, la mente e l’anima trovavano
rifugio per dare vigore alla pace di cui avevano tremendamente bisogno
perdendosi nel silenzio come un bosco silente dopo una violenta pioggia
tempestosa.
La mia vita scorreva normalmente, avevo una bella famiglia, molti
amici, un lavoro. Tutto normale, forse
troppo normale con una tendenza alla monotonia, e nessuna novità all’orizzonte.
Sul lavoro mi spendevo molto, eppure non riuscivo a fare l’ upgrade che
immaginavo e poi mancava una figura, quella di un uomo al mio fianco. Le mie
amiche erano tutte fidanzate ed io invece non lo ero. Dipendeva tutto da quei fastidiosi
chiletti di troppo? Chissà!
Anche quel giorno decisi di immergermi nella natura e alleggerire la
mia mente, da pensieri che potevano intaccare il mio equilibrio, e il mio
corpo, nella speranza di bruciare quel grasso in eccesso che stava diventando
un tarlo con il quale convivere diveniva sempre più difficoltoso.
In quel paesaggio meraviglioso il rumore chiassoso della città si
spegneva e veniva sostituito dalla voce della natura come il cinguettio degli
uccellini, il fruscio delle foglie mosse dal vento, il cigolio riprodotto dai
rami e rumori che simpatici animaletti selvatici riproducevano muovendosi
abilmente nel sottobosco. Percorsi alcuni metri di strada asfaltata, imboccai
il sentiero naturale che si snodava fra gli alberi e che conduceva, dalla via
principale, all’interno del bosco.
Dopo un breve tratto, si apriva dinanzi ai miei occhi una distesa
verde al centro della quale maestoso primeggiava lui, il meraviglioso lago
incantato. Lasciai che le iridi si impregnassero totalmente di quella
meraviglia e tirando su con il naso, respirai a pieni polmoni quell’aria buona
che mi rasserenava. Solo in un secondo momento mi resi conto di non essere sola, infatti, in
lontananza vidi un’esile donna, dai lunghi capelli rossi, che le cadevano giù,
lungo le spalle, come una cascata e la cui pelle diafana, simile al candido
bianco pallore della luna, era avvolta da un abito nero che scendeva morbido
seguendo le curve della sua silhouette lasciando libere le gambe dalle
ginocchia in giù e creando un armonioso contrasto con i suoi colori.
Con quelle luci rosee generate da un tramonto acceso, che sembrava un
dipinto nato dalle virtuose mani di Van Gogh, la donna apparve ai miei occhi
come una dea dalla bellezza disarmante capace di togliere il fiato.
La guardai con incanto, come una bambina stupita ed incuriosita che si
trova di fronte un giochino nuovo, senza
farmi notare. Probabilmente era appena arrivata anche lei, magari da qualche
altro sentiero di cui ignoravo l’esistenza. Restai affascinata dalla scena: si
tolse delicatamente le scarpe e, tenendole in mano, iniziò ad avvicinarsi con
passi lenti e felpati verso la riva. Mentre lo faceva guardava a terra, il capo
chino e un atteggiamento che trasmetteva
uno strano senso di angoscia percettibile anche a metri di distanza. Quando la
vicinanza con la riva si era accorciata a tal punto da separare i suoi piedi da
quelle oscure acque solo un palmo di mano, la giovane donna, lasciò cadere
svogliatamente al suolo le scarpe, che teneva fra le mani, quasi come fossero un
gravoso e ingombrante fardello e con esse si lasciò cadere anch’ella per
entrare in contatto con l’umida erba che segnava il confine. Si sedette
dolcemente e avvicinò le ginocchia al petto, stringendole a sé in un abbraccio,
come a volersi avvolgere da sola in un gesto di conforto capace di poterla
risollevare da quell’angoscia a cui non riuscivo a dare un nome o una
spiegazione. Come potevo dopotutto? Non conoscevo affatto quella donna che
aveva comunque attirato totalmente la mia attenzione.
Di fronte a quella visione mi sentii di troppo e allora decisi di
andare via e di proseguire il mio cammino seguendo un percorso alternativo a
quello programmato. La passeggiata durò di conseguenza meno del previsto,
avendo eliminato la consueta pausa al lago che si prendeva parte del mio tempo,
pertanto approfittai per fare un bel bagno caldo prima di cena.
Non riuscivo ad accantonare quello che mi era capitato al lago. Era mia
abitudine leggere un buon libro prima di addormentarmi, almeno un capitolo me
lo imponevo per non perdere quella bella abitudine che coltivavo sin da
bambina, nonostante gli anni di studio e la stanchezza accumulata a lavoro.
Tuttavia, malgrado la buona volontà, una volta poggiata la testa sul morbido
cuscino, guardai il soffitto e l’immagine di quella bellissima donna avvolta da
una tristezza disarmante fece capolino fra i miei pensieri, portando con sé
alcune domande spinte dalla mia solita curiosità.
Cosa poteva esserle accaduto? Una donna così bella come poteva essere
così sola e triste?
Con questi quesiti i miei occhi si chiusero lentamente trascinandomi
fra le braccia di Morfeo, pronto a condurmi in un sonno ristoratore e verso
sogni fantasiosi.
Nei giorni successivi andai quotidianamente al lago e puntualmente la
scena a cui avevo assistito giorni prima, si ripeteva nuovamente seguendo la
medesima sequenza. La ragazza arrivava lì al calar del sole e si accomodava su
quella riva per perdersi con lo sguardo fra quelle acque alla ricerca di chissà
cosa.
Un giorno, però, mi avvicinai di più e nel farlo produssi involontariamente
un rumore che, seppur quasi
impercettibile, riuscì comunque ad attirare l’attenzione della donna che
inevitabilmente si voltò verso di me. A quel punto uscii allo scoperto e cercai
di inventare una scusa plausibile.
«Scusami tanto, passavo qui per caso non volevo disturbarti!» le dissi
banalmente.
«È un luogo pubblico, non devi assolutamente scusarti con me» mi
rispose.
Ebbi la sensazione di non infastidire, forse dalla dolcezza che
riconobbi nella sua voce e di come si fosse posta verso di me e così mi
avvicinai lentamente verso di lei accomodandomi al suo fianco.
«Mi chiamo Lidia ehm . . . ad essere sincera, non è la prima volta che
ti trovo qui. Sono diversi giorni ormai che mi dirigo al lago. È un posto che amo particolarmente
perché mi da pace. Così mi è capitato di trovarti e ti ho sempre guardata da
lontano. La tua bellezza non passa inosservata ma emerge anche altro. Perché
sei così triste?»
La giovane donna, che da vicino risultava essere anche più bella di
come appariva in lontananza, posò i suoi occhi scuri nei miei sviluppando
ulteriormente l’empatia che in qualche modo avevo già innescato nei suoi
confronti, in maniera del tutto inspiegabile. Con un amaro sorriso mi chiese.
«Hai notato la mia tristezza per via del colore dell’ abito che
indosso?»
Rimasi sorpresa da quella domanda. Perché mai un capo di abbigliamento
doveva trasmettere necessariamente un’emozione così netta?
«Ovviamente no!» risposi «Ho percepito la tua sofferenza dal tuo
atteggiamento e per come te ne stai qui, in riva a questo lago, con lo sguardo
fisso in un punto preciso e ora che ti sono vicina, nei tuoi occhi c’è un velo
che offusca quella luce che generalmente dovrebbe esserci»
Lei mi guardò intensamente ancora una volta prima di riportare lo sguardo
verso il lago.
«Quella luce c’è lì dove esiste la speranza, la gioia, la vita . . . nei
miei occhi non la noti perché sono tremendamente triste e questo perché la vita
mi ha dapprima dato tanto e poi mi ha tolto tutto»
Dopo aver dato quella risposta vaga, ma intrisa di dolore e
malinconia, la giovane donna dai capelli rossi piombò nuovamente in un silenzio
assordante, un chiaro segnale di chiusura. Dopotutto perché mai avrebbe dovuto
raccontarmi qualcosa di così intimo e personale? Ero solo una sconosciuta in
fondo.
«Non so la ragione della tua sofferenza ma posso
dirti che mi dispiace molto!» le dissi, come se fosse necessario farlo.
Restai lì, al suo fianco ancora per un po',
guardando il suo riflesso in quello specchio acquoso e cercando di darle
presenza e conforto. Nel silenzio mi levai lentamente, come a non voler
inquinare, con bruschi rumori, quello stato silente di pace e andai via
lasciandola sola, immersa nei suoi pensieri. Aveva bisogno di attraversare il
suo dolore nella sua intimità.
Tornai verso casa ripensando a lei costantemente e
soprattutto a quelle parole “la vita mi ha dato tanto ma mi ha tolto tutto”.
Serve davvero etichettare ogni emozione per
comprenderne l’intensità?
La risposta è no, perché, seppure non conoscessi la
storia di quella giovane donna la sua sofferenza aveva toccato la mia
sensibilità, come un un’arpista sfiora delicatamente e con maestria le corde
del suo strumento producendo una melodia capace di arrivare dritta all’anima di
chi ascolta, facendola vibrare. Inevitabilmente pensai a come sia curioso
l’essere umano. Quante volte su questioni spicciole e di poco conto riusciamo a
ricamarci improbabili quanto insormontabili tragedie che non hanno nulla a che
spartire con la drammaticità di lotte interiori che molte persone sono
costrette ad affrontare nella propria vita, nonostante il mondo continui
inarrestabile la propria corsa, fregandosene se le ginocchia sono a terra e
rialzarsi risulta complicato se non impossibile?
Spesso mi lamentavo della mia fisicità, dell’essere
ancora single e adesso mi rendevo conto di quanto fossi frivola nel fare di
questi piccoli problemi un’Odissea.
Seppure l’empatia sia una caratteristica
predominante nel mio carattere e quella donna aveva catturato i miei pensieri,
resto pur sempre un essere umano e va da sé che, inevitabilmente, con lo
scorrere dei giorni la quotidianità mi prese
totalmente con i suoi ritmi frenetici portandomi lontana da quei pensieri e di
conseguenza le mie attenzioni si incanalarono tutte verso un’altra direzione.
Diversi furono i cambiamenti che si mostrarono
all’orizzonte, come se quell’incontro al lago fosse stato il via di un capovolgimento
radicale della mia vita.
Senza rendermene conto, a distanza di un anno, la mia vita migliorò notevolmente: ottenni,
dopo anni di sacrifici fatti senza remore e ripensamenti, una promozione nello
studio associato di avvocati in cui lavoravo, mi iscrissi in una palestra non
molto distante da casa e con un programma di allenamento mirato migliorai anche
il mio aspetto fisico e infine, non per ordine di importanza, avevo finalmente
trovato Aurelio, un ragazzo speciale che aveva conquistato il mio cuore sin da
subito e che mi regalava tutto l’amore di cui avevo bisogno. Insomma, tutto
scorreva meravigliosamente bene, come se le stelle si fossero finalmente
posizionate in cielo a mio favore aprendomi una per una tutte le porte propizie.
Mi sentivo realizzata e soddisfatta della mia vita, dei traguardi raggiunti e
di quello che stavo diventando non trovando più alcuna ragione a cui
aggrapparmi per potermi lamentare.
Tuttavia, la felicità umana è come l’ombra prodotta
dalla luce del giorno che svanisce con l’arrivo della sera e anche il mio
momento di gloria stava per volgere al termine. Il destino aveva in serbo per
me una dura prova da superare.
Tutto avvenne in una giornata di inizio estate, era il 26 giugno, il
giorno prima del mio compleanno.
Quella mattina il cielo era di un azzurro terso e il sole brillava già
alto nel cielo. Erano le 09:00 del mattino e in auto con Aurelio, che quella
mattina aveva deciso di accompagnarmi, stavo per iniziare come di consueto una
nuova giornata di lavoro, l’ultima di quella settimana. Giunti di fronte allo
studio in cui lavoravo mi voltai verso di lui.
«Ci vediamo a pranzo amore, così possiamo poi partire per il nostro
weekend!»
«Certo amore. Buona giornata!» mi disse con un sorriso smagliante,
quel sorriso che mi aveva conquistata sin dal nostro primo appuntamento e che
non resistetti dal baciare dolcemente in quel momento. Lo amavo davvero tanto e
questo perché mi capiva, mi ascoltava e mi regalava tutte le attenzioni che
avevo da sempre desiderato ricevere.
Scesi dall’auto, chiusi la portiera e avvertii la necessità
inspiegabile di salutarlo ancora e così lo feci prima di voltarmi e
incamminarmi verso il portone principale dello studio.
Feci appena due passi quando sentii all’improvviso un botto
violentissimo che fece vibrare l’aria intorno a me. Mi voltai e dinanzi i miei
occhi si palesò una scena agghiacciante a cui mai e poi mai avrei voluto
assistere. Un’auto impazzita si era schiantata frontalmente contro quella del
mio Aurelio.
Buio.
Mi portai le mani sul viso e urlai con tutta la forza che avevo in
corpo. Mi diressi verso l’auto ma la portiera non voleva saperne di aprirsi.
Chiamai velocemente i soccorsi in cerca di un aiuto umano ma soprattutto dal
cielo.
Di quello che accadde poi ricordo solo il suono delle sirene impazzite
dell’autoambulanza che ci conducevano dritti all’ospedale, lui su di una
barella, la corsa in sala operatoria, le mie lacrime inarrestabili, le infinite
preghiere pronunciate sottovoce e l’attesa interminabile. Il tempo era lento e a
tratti sembrava quasi volesse fermarsi del tutto.
Poi il medico, che aveva operato Aurelio, il mio Aurelio, uscii dalle
porte scorrevoli automatiche della sala operatoria con lo sguardo scuro in
volto.
«L’intervento è andato bene»
«Oh! Grazie al cielo!» dissi con un cenno di speranza nella voce che
venne immediatamente spazzato via dalle parole che il medico pronunciò
immediatamente poi.
«Signora,le condizioni di Aurelio sono critiche. Verrà trasferito in
terapia intensiva sperando che superi la notte. Noi abbiamo fatto il possibile,
adesso attendiamo solo un miracolo. Deve essere forte e iniziare a preparasi al
peggio. Mi dispiace!»
Mi diede una pacca sulla spalla trasmettendomi tutta la sua
solidarietà con lo sguardo, uno sguardo che non ho mai più dimenticato.
Sentii mancare la terra sotto i miei piedi. Quelle che seguirono
furono ore di panico e dolore, un dolore che non riuscivo a quantificare né
tantomeno a descrivere. Le lacrime continuavano a scendere copiose dagli occhi
rigando il viso di sale amaro e stare in quel corridoio gelido in attesa di un
miracolo mi mandava letteralmente in confusione. Milioni di domande e nessuna
risposta. L’aria mancava e alternavo momenti di speranza a quelli di folle
angoscia che mi facevano pensare al peggio e allora mi sentivo sprofondare.
In quel momento comparve, fra i miei veloci pensieri confusi,
l’immagine della donna dai capelli rossi. Avvertii la necessità di raggiungerla
e così mi diressi al lago. Il tramonto stava esplodendo e la trovai lì, come un
anno prima, seduta a guardare quelle acque che conoscevano probabilmente il
perché della sua sofferenza. Tolsi dai miei piedi le scarpe, proprio come
faceva di consueto lei, mi avvicina e poi mi accomodai al suo fianco in
silenzio.
«Ti aspettavo» mi disse senza voltarsi.
«Ah si?» domandai incuriosita.
«Si» fu la sua unica risposta mentre continuava ad osservare un punto
preciso.
Restammo per qualche minuto in silenzio, un silenzio diverso da quello
del nostro primo incontro, un silenzio complice. Guardai il mio riflesso in
quello specchio d’acqua. Il mio viso era contratto dal dolore, dal terrore, i
miei occhi erano gonfi dopo aver versato tutte le lacrime che avevo in corpo.
Notai solo in quel momento la similitudine dei nostri sguardi entrambi persi e
con quel velo che nascondeva tutto il resto. A quel punto fui io a spezzare
quell’incantesimo.
«Non so nemmeno quale sia il tuo nome e nemmeno quale possa essere la
tua storia eppure in te io mi riconosco, soprattutto adesso».
A quelle parole lei mi guardò e i nostri occhi si incontrarono come se
quel momento fosse stato scritto dal destino.
«Mi sono sempre chiesta quale fosse la pena che portavi dentro, almeno
l’ho fatto per un po'. La mia vita dal nostro incontro è cambiata sai? È
migliorata. Ho avuto tutto, una promozione sul lavoro, un uomo speciale. Si chiama
Aurelio. È meraviglioso» iniziai a piangere.
Lei mi guardò con dolcezza e mi accarezzò le spalle come farebbe una
sorella ma rimase in silenzio.
«Stamattina ha avuto un incidente d’auto, dinanzi i miei occhi. È
stato orribile. Ho provato e provo tuttora un dolore disumano. Non so se potrò
abbracciarlo ancora, se si sveglierà. Fa tutto così male»
«Lo so bene» disse lei con una calma disumana e proseguì «Sei una persona sensibile. Hai notato la mia
sofferenza da subito, a differenza di altre persone a me care che hanno visto
in me debolezza ed esagerazione. Ma vedi, nella gioia e nella normalità le
persone vivono senza badare troppo all’importanza della vita, dell’amore, della
possibilità di avere persone accanto che ad altri è negata. Solo chi ha un animo
sensibile può immedesimarsi nel prossimo altrimenti siamo tutti diversi. Quello
che ci rende simili, invece, è il dolore. Quando arriva appiana le montagne e
ci fa vedere oltre, ci mostra esattamente cosa voglia dire sentire un gelo nel
petto che nemmeno un fuoco ardente può smorzare, sentire un groppo alla gola
che non permette di deglutire nemmeno la saliva. È sentirsi bruciare dentro e
voler porre fine a quel dolore che il tempo non potrà mai cancellare. Il dolore
mostra a tutti la vera essenza dell’altro e ci mostra come, seppur diversi, in
quel sentimento, capace di toglierci la voglia di vivere, reagiamo tutti allo
stesso modo»
Ci guardammo in silenzio. Lei aveva capito esattamente cosa stessi
provando. Era proprio quella sensazione. In un attimo la mia mente tornò indietro di un
anno e ripensai alle sue parole. “La vita mi ha dato tanto e mi ha tolto tutto”.
Prima che potessi chiederle cosa le fosse accaduto lei proseguì come
se mi avesse letto nel pensiero.
«La mia amarezza è dovuta alla perdita dell’amore della mia vita.
Venimmo un giorno qui, al lago per trascorrere un giorno diverso dal solito.
Prendemmo un pedalò e iniziammo a fare un giro. Era tutto perfetto, il sole, il
cielo terso e noi due, felici e spensierati. Consumammo la merenda al tramonto
e all’improvviso si alzò il vento che fece volare via il foulard poggiato
intorno al mio collo. Ero legata a quel foulard perché era di mia madre,
deceduta prematuramente. Cercai di afferrarlo ma non riuscii a recuperarlo.
Allora Daniele, il mio amato, fece di tutto per portare in salvo
quell’oggetto a me caro, se non fosse che cadde nelle profonde acque del lago.
Cercai di aiutarlo ma non riuscii a fare nulla. Non sapevo nuotare. Daniele era
rimasto impigliato in qualcosa e nonostante le urla nessuno corse ad aiutarci.
Solo dopo diverso tempo arrivarono i soccorsi ma fu troppo tardi.»
Silenzio.
Adesso era tutto molto chiaro. Quello che stava accadendo a me lei lo
aveva già subito con un epilogo tragico e irrimediabile.
«Io . . . mi dispiace molto. Come hai potuto sopravvivere a tutto
questo?»
«Non lo so . . . la fede? La forza di sopravvivenza umana? La mancanza
di coraggio nel fare un gesto estremo? Non te lo so dire questo. Sono qui, con
la speranza che dal dolore possa nascere qualcosa di buono e probabilmente in
te ho trovato proprio questo. Adesso va dal tuo Aurelio. La vostra storia deve
avere un finale diverso»
Ci abbracciammo piangendo entrambe per i nostri dolori ma anche per la
prova che l’altra stava affrontando. Tornai in ospedale e in quel momento di
buio la luce. Aurelio era miracolosamente tornato alla vita, era salvo. La
gioia che provai fu immensa e indescrivibile, della stessa portata di quel
dolore che nelle ore precedenti aveva devastato ogni parte di me. Accarezzai il
volto del mio amato e stetti al suo fianco sempre.
Quando tornammo a casa mi presi qualche giorno per sistemare tutto e
organizzarmi.
I medici non seppero mai spiegarci come Aurelio fosse tornato alla
vita. Qualcosa mi fece pensare che la responsabile di quella magia fosse lei,
la donna del lago.
Un giorno attesi l’arrivo del tramonto e mi diressi al lago nella speranza di incontrarla per
raccontarle tutto e di porle alcune domande.
Quando arrivai lì della ragazza dai capelli rossi non c’era nemmeno
l’ombra, bensì al posto in cui sedeva di consueto era nata la stella di
Betlemme, un fiore bianco come la pelle diafana di quella donna che aveva
accolto, compreso il mio dolore, nonostante stesse attraversando elle stessa
una pena maggiore della mia. Che strana coincidenza pensai fra me.
Tornata a casa capii il significato di quel fiore.
Rappresentava la consolazione del dolore e la capacità di guarire da
eventi tragici che la vita pone sul nostro cammino. Sorrisi. Probabilmente quel
fiore rappresentava la rinascita per entrambe o forse quella donna era
un’entità misteriosa che il destino aveva in mente di farmi incontrare per darmi
un importante insegnamento. Chissà, questo non si saprà mai. Tuttavia, da quel
giorno, continuai ad andare al lago a prendermi cura di quel fiore e a sedermi
lì, accanto a lui, osservando quelle acque in ricordo di quell’incontro che mi
ha cambiato la vita e che mi ha insegnato la resilienza della luce della
rinascita, incapace di spegnersi e di come il dolore ci rende tutti umani.