L’ultima cioccolata di Babbo Natale - di Giovanna Santarsiero


 

11 dicembre 2025.

Avvolta da maestose montagne mozzafiato e da boschi che paiono usciti da un racconto incantato, Castelrotto è in trepidazione per l’arrivo del periodo più magico dell’anno: il Natale.

Le vie del borgo scintillano di luci multicolori, le note dei canti natalizi si diffondono nell’aria, come un’eco d’infanzia, mentre bancarelle colme di dolciumi, oggetti artigianali e profumi speziati si mescolano nel freddo invernale. L’atmosfera è pervasa da una gioia contagiosa, quella che i paesi di montagna sono in grado di custodire nel tempo.

È in questo scenario che giunge il commissario Deliucius Mark, deciso a trascorrere le tanto attese ferie invernali, lontano da indagini complesse e casi logoranti. Aveva scelto Castelrotto proprio per la sua quiete: nessun mistero da risolvere, nessun enigma da decifrare. Solo neve e riposo.

Dopo aver depositato i bagagli nell’Hotel Stella Alpina, un accogliete rifugio collocato nel borgo, Deliucius decide di immergersi nell’atmosfera natalizia di quella località tutta da scoprire.

Il centro della festa risulta essere il Villaggio di Babbo Natale, allestito nella grande piazza principale. Per raggiungerlo, il commissario attraversa il corso centrale agghindato a festa con addobbi di ogni colore e forma: ghirlande, nastri dorati, lanterne.

Le vetrine dei negozi, curate con fantasia e gusto, riflettono le luci delle luminarie, dando vita ad un gioco di riflessi che trasforma le strada in un piccolo mondo fiabesco.

Davanti l’ingresso del Villaggio, una lunga fila di bambini e genitori attende il proprio turno per poter varcare la soglia e immergersi in quel luogo magico.

Deliucius è ipnotizzato da quelle meraviglie e dalla folle festante che si gode quei momenti magici in attesa dell’arrivo delle feste. L’odore di cannella raggiunge le sue narici. Poco distante da lui, una bancarella vende dolci tipici. Sente un brontolio provenire dallo stomaco, così decide di concedersi una dolce pausa, dopotutto quale modo migliore per dare il via alle sue vacanze?

Paga con poche monete quella prelibatezza e non appena sta per addentare la brioche con il primo morso, un fragoroso trambusto cattura la sua attenzione. Un’elfa del Villaggio, corre nella piazza gridando:

- Babbo Natale non si trova! –

Tutti la guardano con disappunto, credendo che fosse solo un siparietto per far intendere che ci fosse un ritardo nell’inizio della manifestazione. L’agitazione della ragazza, però, risulta essere alquanto esagerata così da convincere il commissario a posare il suo dolce e raggiungerla dietro le quinte.

Lì, fra costumi, pacchi finti e stretti passaggi, il commissario trova riverso a terra Babbo Natale. La bianca barba è contorta e il volto dell’uomo cereo. Si china su di lui e, poggiando due dita sulla giugulare, dice: - Babbo Natale è morto! –

A quelle parole l’elfa lancia un urlo.

Dopo un quarto d’ora arrivano i carabinieri e un’autoambulanza.

Il medico  giunto sul posto si precipita sull’uomo e fa le sue prime valutazioni.

- Pare sia morto a causa di un malore, pover’uomo! –

Intanto il commissario gira nel camerino. Percepisce nell’aria un odore mandorlato provenire dalla tazza, in cui era ancora presente la cioccolata fumante.

- Mi scusi dottore, non sente anche lei questo odore particolare provenire dalla cioccolata? –

Il medico si avvicina alla tazza e annusa.

- Beh effettivamente. . . –

 - Forse non si tratta di un semplice malore! – sottolinea Deliucius.

- Predisporremo  la richiesta di effettuazione dell’autopsia per saperne di più. Che stranezza, il nostro è un paese tranquillo! –

- Lo credevo anche io – dice il commissario - altro che ferie invernali! –

Avrebbe voluto restare fedele al suo proposito, voltarsi dall’altra parte e lasciare quella gatta da pelare alle autorità competenti del posto, tuttavia, il senso di giustizia e la ricerca della verità prevalsero.

Il cadavere viene trasportato in obitorio mentre per Deliucius inizia l’ indagine!

La folla si era accalcata nel Villaggio e così il commissario ne approfitta per fare qualche domanda ai presenti.

Scopre che Babbo Natale era Ernesto Belli, un uomo di mezza età, che lavorava come impiegato al comune, ma che aveva una passione per l’arte ed il teatro. Così, durante le diverse festività dell’anno, si prestava per interpretare i ruoli più svariati. Era originario di Bolzano, ma da più di dieci anni viveva lì. Con il suo carattere bonario era entrato nelle simpatie di tutti. Dietro il suo apparente sorriso, però, celava un passato scomodo e davvero molto triste: un matrimonio finito male e la mancanza per sua figlia Jessica, che vedeva pochissime volte l’anno, dato che la sua ex moglie l’aveva portata con sé a Trento. Niente che facesse pensare a quale potesse essere il reale motivo che lo aveva portato a morire in quel modo.

Ritorna nel camerino e continua a perlustrare ogni cosa. Trova una giacca poggiata sullo schienale di una sedia, apparteneva sicuramente ad Ernesto. Inizia a frugare nelle tasche e rinviene un biglietto appallottolato. Lo spiega e legge: “Non rovinare la magia del Natale!”

Cosa volevano dire quelle parole?

In un angolo, poco distante da lui, Deliucius trova Chiara Picò, ovvero l’elfa che aveva lanciato l’allarme, in una pozza di lacrime.

Le si avvicina.

- Buongiorno signorina, sono il commissario e dovrei porle alcune domande –

- S. . . si. . . mi dica! – dice la ragazza fra un singhiozzo e l’altro.

- In che rapporti era con la vittima? –

- Ernesto era un collega di spettacolo speciale, l’unico che conoscevo bene e con il quale andassi d’accordo –

- Ha notato qualcosa di strano nei giorni scorsi? –

- Si – dice, tirando su con il naso – era molto agitato e aveva detto di voler abbandonare lo spettacolo! –

- E perché? –

- Aveva litigato con Luca Artigli, il tecnico dell’impianto, ma non credo fosse quella la reale causa. Mi aveva detto di aver scoperto qualcosa di grosso ma che, per il mio bene, non poteva dirmi altro –

Deliucius resta a pensare per qualche minuto.

- Sul tavolino di fianco ad Ernesto, era presente una tazza di cioccolata calda. Chi l’ha portata lì? –

- Io! – dice lei con una certa convinzione.

- Perché? –

- Beh perché Ernesto amava bere sempre una cioccolata calda prima di iniziare lo spettacolo. Sa con questo freddo! –

A quelle parole, il commissario fissa i suoi occhi in quelli  della fanciulla per capire se nascondesse qualcosa. Secondo i suoi sospetti la cioccolata era stata avvelenata. Se così fosse, possibile che la ragazza avrebbe dato quella risposta con nonchalance consapevole che sarebbe stata scoperta?

- Resti nei paraggi qualora dovesse essere necessario ascoltarla ancora – dice senza approfondire oltre.

- Si va bene – risponde la ragazza, asciugando le lacrime.

Il commissario cerca a quel punto Luca Artigli che era stato già fermato dai carabinieri.

Parlando con lui, Deliucius scopre che il motivo del litigio era un’accusa che Ernesto aveva posto nei suoi confronti accusandolo di furto. Secondo Ernesto, molti oggetti della scena era spariti per mano di Luca nelle ore antecedenti allo spettacolo, quando, senza la presenza dei figuranti, poteva entrare in azione indisturbato. Anche lui sembrava avere un movente per l’omicidio.

La scientifica inviò l’esito delle analisi condotte sulla tazza. La cioccolata era stata effettivamente avvelenata ma sull’oggetto nessuna impronta digitale.

I sospetti di Deliucius erano dunque fondati, ma come avrebbe fatto a scoprire chi fosse il colpevole?

Mentre stava ponendosi questa domanda, viene avvicinato da una donna.

- Lei è? –

- Buongiorno commissario. Sono Marta Rainer, la proprietaria del bar qui di fronte, ho qualcosa di importante da dirle! – afferma.

- Prego mi dica, sono tutto orecchi! – dice il commissario, desideroso di porre fine a quell’indagine il prima possibile così da poter tornare alle sua vacanze.

- Proprio la notte scorsa, intorno a mezzanotte, stavo chiudendo il locale. Sa, Castelrotto è un piccolo pesino, tuttavia fintanto che si sistema il locale per preparare quello che si può per il giorno seguente, si finisce sempre tardi – fa una breve pausa e poi prosegue.

- Stavo per uscire quando, all’improvviso, sento un forte vociare. Senza farmi notare, socchiudo l’uscio della porta e scopro che i due intenti a discutere altri non erano che il sindaco Orlando Rossi, e il povero Ernesto. Non ho potuto capire bene cosa si dicessero ma ho notato che il sindaco era alquanto agitato e prima di andare via ha strattonato in malo modo il povero Ernesto. –

- Interessante – pensa il commissario.

- Non ho detto nulla prima per non creare dissapori, ma considerando che il povero Ernesto è stato ammazzato, ho pensato bene di dirvelo! –

- Ha fatto benissimo signora Rainer ! –

Dopo quella scoperta Deliucius indaga sulla vita del sindaco. Scopre che l’uomo era impelagato in una traffico losco e che, i soldi che l’amministrazione riceveva come contributi venivano investiti per scopi personali. Essendo un funzionario comunale, molto probabilmente, Ernesto aveva scoperto qualcosa e il sindaco non ne era entusiasta.

Per poter incastrare il sindaco, Deliucius va da Luca Artigli a chiedere se nel Villaggio ci fosse un sistema di videosorveglianza. Per fortuna la risposta fu affermativa. Attraverso le registrazioni il commissario vede il filmato in cui, il sindaco, Orlando Rossi, si era recato nel camerino poco dopo l’arrivo di Chiara che, con i suoi guanti da elfa, aveva lasciato la tazza sul tavolino. Si vede perfettamente l’uomo che versa nella cioccolata qualche sostanza, sgattaiolando poi via velocemente. Dopo due minuti arriva il povero Ernesto, beve un sorso di cioccolata, e, mentre stava per sistemarsi la barba, inizia a sentirsi male, per poi cadere riverso sul pavimento.

In serata il Villaggio di Babbo Natale riapre le sue porte.  Le luci tornano a brillare, le risate dei bambini si diffondono nell'aria come la musica, come se nulla fosse accaduto. Ma in fondo, sotto quella patina festosa, qualcosa si era incrinato per sempre.

Il commissario Deliusus Mark aveva smascherato il sindaco davanti a tutta la folla attonita, consegnandolo alle forze dell’ordine. Quello di Orlando Rossi sarebbe stato un Natale molto diverso. 

Avvolto nel suo cappotto, Deliusus guardava la neve venire giù dal cielo coprendo ogni cosa: le orme, le menzogne, la memoria del delitto stesso. Castelrotto, sotto quel manto bianco, riconquista la sua apparente innocenza, come se la verità potesse essere davvero occultata dal silenzio dell'inverno.

Il commissario si volta, lasciandosi alle spalle la piazza illuminata. Cammina nella notte, con il passo di sa bene che la pace è solo un'illusione fugace e che, anche nei luoghi più puri, può nascondersi l'ombra del male.

 

 

Un regalo speciale - di Antonio Tripaldi

 




Il freddo non gli dava tregua; lo colpiva, lo avvolgeva, lo marcava stretto. Era il 24 di dicembre. La tempesta di neve voleva proprio inondare tutto quel giorno, compreso lui. Si trovava nel parco del suo paese; seduto su una panchina, in balia di quella bufera, a pensare, a pregare forse. A casa sua tutti lo stavano aspettando: la moglie, il figlio piccolo, i genitori e le sorelle di lei, i genitori suoi insieme a suo fratello. Provava vergogna. Non voleva tornare a casa da sua moglie e soprattutto da suo figlio, a mani vuote. Non era colpa sua, ma lo stesso egli sentiva come se lo fosse davvero, e fosse soltanto sua.

Lavorava per una ditta esterna in una fabbrica di gelati. Faceva le pulizie. Le cosiddette pulizie industriali. Non era un lavoro duro, anzi, forse poteva anche dirsi soddisfatto di farlo e, a dirla tutta, stava quasi accettando quel suo destino piccolo piccolo. Il problema era che non lo pagavano da mesi. Aveva potuto nascondere alla sua famiglia quella situazione spiacevole, grazie ai pochi risparmi che aveva potuto mettere da parte per le emergenze. Ma adesso, in occasione del Natale, delle festività, era rimasto a secco. La rabbia lo divorava, indirizzata sopratutto contro i suoi datori di lavoro, che non si facevano mancare niente, nessuno sfizio…nessun vizio. La vergogna lo rodeva dentro. Piano piano. Cosa avrebbe potuto regalare al suo bambino?

Aveva anche scritto una stupenda lettera a babbo natale come compito all’elementare e subito, lui e sua moglie, l’avevano poggiata sulla base del camino. Chiedeva a babbo Natale innanzitutto che tutte le guerre in corso finissero subito ed all’unisono. Un’utopia d’accordo, ma commovente in un bambino di sette anni. Chiedeva che la mamma stesse sempre bene e che non litigasse più con suo padre; chiedeva che suo padre non litigasse più con sua madre e che non ingoiasse più quelle pillole che lo facevano dormire anche quando stava in piedi. Chiedeva cose belle per i nonni, gli ziii, gli amichetti ed i genitori degli amichetti. Chiedeva, ingenuamente, come fanno di solito in quella tenera età, di diventare grande in fretta. L’ultima riga era per un libro che desiderava davvero tanto; un libro della prima scrittrice donna premiata con il Nobel, Selma Lagendorf, ed il titolo del libro era “l’imperatore di Portugallia”. Voleva questo benedetto libro perché suo padre ne parlava con sincera commozione a sua moglie, ogni tanto; gli diceva che vi si trovava scritto già tutto lì dentro, in quel libricino. 

Lui, suo padre, il suo modello, per adesso, non era riuscito neanche a poter permettersi di comprare quel volumetto in una libreria dell’usato. La cosa che più malediceva di se stesso era che, nonostante il desiderio del figlio, non poteva fare a meno di spendere quei pochi soldi che aveva in sigarette. Non riusciva a farlo per accontentare il figlio. Ma che padre era? Va bene che aveva letto in fascicolo che, in ospedale , il reparto dove le cicche di sigaretta erano più presenti, fosse quello per il tumore ai polmoni…ma un bambino può mai comprendere questi dettagli? Rileggeva a memoria quella lettera dolce ed innocente, mentre lottava contro il freddo. Diventare grande in fretta. L’imperatore. Soldi zero. Mise una mano nella sacca del giubbino per prendere una sigaretta. Non l’avrebbe accesa, con quel vento era pressoché impossibile. Voleva solo fermare il nervosismo tenendola in bocca. Nel prendere il pacchetto trovò una moneta strana, d’oro, sporca ma ancora lucida alla luce del lampione sopra di lui. Questo poteva essere un regalo? Il sacrificio che suo nonno fece per portare a suo padre quel pezzo di antiquariato, di ritorno dalla seconda guerra mondiale. Era appartenuta ad un soldato delle ss. Quella moneta voleva portarla al suo bambino a casa, era diventata un motivo per combattere, resistere, reagire a quell’incubo. Decise di raccontare la storia del nonno e della moneta a suo figlio. E regalargli quel prezioso amuleto. 

Decise così. Suo figlio era sensibile e curioso abbastanza da porter apprezzare e custodire subito quel dono. Si alzò e si avviò verso casa, in balia della bufera di neve.


Biglietto 12B - di Giovanna Santaarsiero


 

Aosta, 09 dicembre 2025.

La neve fioccava, coprendo sotto il suo candido manto, ogni cosa, anche l’antica stazione ferroviaria, chiusa ormai da decenni, della quale emergevano solo in parte i binari arrugginiti, rilasciando nell’aria un forte odore di ferro che andava in contrasto con la purezza del paesaggio innevato.

A diversi metri da lì, Claudia Rossi, camminava fra le strade bianche della città, avvolta dal suo pesante cappotto di lana borgogna.

Il capo coperto da un cappello di lana grigio, in tinta con i guanti e lo sciarpone, che lasciava scoperti solo i suoi grandi e vispi occhi verdi, attenti su dove mettesse i piedi, per evitare uno scivolone che le sarebbe costato una brutta contusione.

Avanzava con una certa sveltezza, nonostante il tappeto bianco: quella mattina era in ritardo con l’apertura della sua libreria.

Una volta lì, accese la luce, azionò i caloriferi e si svestì, pronta a dare il via ad una nuova giornata lavorativa.

L’aria festosa del Natale era viva e la neve rendeva tutto più magico.

Sostò per qualche minuto davanti la vetrina, incantata dal paesaggio.

Chissà se sarebbe stata una giornata produttiva quella? – pensò fra sé.

Dopo aver sistemato alcuni addobbi, Claudia si diresse verso gli scaffali e cercò di ordinare meglio i volumi che erano arrivati pochi giorni prima e che non era ancora riuscita a sistemare sugli espositori.

Fortunatamente arrivarono diversi clienti, tutti con l’intento di fare un dono speciale ai propri cari. La cosa la meravigliò profondamente: nonostante la tecnologia, c’era ancora chi amava l’odore e il contatto con la carta.

Prima di andare via, decise di portare con sé un romanzo a cui era molto affezionata: lo Schiaccianoci. Lo teneva riposto in un luogo segreto della libreria. Era un regalo del suo amato papà, che amava rispolverare in prossimità delle feste natalizie, per sentirlo più vicino.

Dopo cena, si sistemò sul divano, di fronte al camino acceso e iniziò a leggere. Con lo sfogliare le pagine, si ritrovò di fronte ad un biglietto ferroviario: Treno 714, posto 12B, partenza 24 dicembre 1983, ore 23:45.

La data la colpì: corrispondeva alla notte in cui suo padre, Carlo Rossi, scomparve senza lasciare traccia.

Eppure, in tutti quegli anni, Claudia aveva sempre letto quel romanzo e non aveva mai trovato quel biglietto.

La mattina successiva, dopo aver consumato la colazione, Claudia si preparò per uscire, ma quando aprì la porta, trovò un biglietto. Lo aprì e lesse: “Tutti i viaggi hanno destinazioni segrete di cui il viaggiatore non è consapevole” – di Martin Buber.

Leggendo quelle parole Claudia rimase interdetta, dato che le ripeteva spesso suo padre. Certamente non poteva essere lui il mittente di quel biglietto, o forse si?

Allontanò velocemente quel pensiero, decidendo che era solo il frutto di uno scherzo di cattivo gusto.

Nei giorni successivi, però, continuò a ricevere altri biglietti contenenti frasi e citazioni di libri che suo padre amava. Tutti portavano la stessa firma: 12B.

L’ultimo, che ricevette il 23 dicembre, riportava delle coordinate che la condussero all’antica ferrovia abbandonata. Arrivata lì, Claudia ritrovò un orologio da tasca appartenuto a suo padre e un registro ferroviario che riportava partenze mai avvenute. Scoprì che il treno 714, indicato sul biglietto che aveva rinvenuto nel romanzo dello Schiaccianoci, non esisteva: era un convoglio fantasma, usato negli anni Ottanta per trasferimenti segreti.

Decise di andare via da lì ma, una volta a casa, viene invasa dal passato. Ricordi sfocati divennero sempre più vividi e così sentì la voce di suo padre sussurrarle di non salire mai su un treno; vide l’immagine di sua madre intenta a bruciare vecchie foto e un uomo, avvolto da un cappotto grigio, che la osservava da lontano.

La sera della vigilia di Natale, esattamente 42 anni dopo la scomparsa di suo padre, Claudia ritornò alla stazione.

La neve cadeva fitta e il silenzio era sovrano.

Si strinse nelle braccia per avvertire meno freddo. Poi all’improvviso, un fischio lontano,ruppe il silenzio. Sul binario 3, un treno apparve nella nebbia: luci accese, porte aperte, nessun passeggero.

Claudia ci salì, spinta da un impulso che non comprese. Il treno partì, ma non sembrava muoversi nello spazio. Sulle vetrate dei finestrini iniziarono a scorrere scene del passato, frammenti della notte in cui suo padre era scomparso.

Carlo era un ingegnere ferroviario. Era ossessionato da un guasto inspiegabile che sembrava ripetersi sempre alla stessa ora. Quella notte ricevette una telefonata anonima in cui qualcuno gli comunicò di salire sul treno 714 al posto 12B, così da scoprire la causa. Claudia rimase interdetta.

Quel treno era un esperimento, parte di un progetto segreto per testare un sistema di comunicazione quantistica tra stazioni. Qualcosa andò storto: il treno scomparve dai radar per pochi minuti, ma quando riapparve, i passeggeri non c’era più.

All’improvviso, venne avvolta da una luce evanescente che la costrinse a chiudere gli occhi. Quando li riaprì si trovò sola sulla banchina con in mano il biglietto 12B. Il treno era sparito ma davanti a lei, sul tabellone, comparve una nuova scritta: Prossima partenza – 24 dicembre 2025 – Treno 714.


La pallina d'argento - di Giovanna Santarsiero

 



Anche Tivoli, si accingeva a dare il benvenuto al Natale, il tempo più nostalgico e incantato dell’anno, quello che tutti attendono caricandosi di aspettative, desideri e speranze. 

Nella piazza centrale, come da tradizione, fra le bancarelle che componevano i mercatini natalizi, le luminarie che scintillavano come stelle e le melodie che si diffondevano nell’aria fredda e profumata di vin brulé, alcuni operai erano alle prese con l’allestimento dell’albero che sarebbe stato acceso la sera dell’otto dicembre.

In quel clima di festa e di attesa, nella quiete della sua dimora, come ogni anno, Anna si preparava psicologicamente ad affrontare un mese tanto luminoso, quanto doloroso, intriso com’è di ricordi dolci ma struggenti.

Venti anni prima, un incendio aveva devastato la sua abitazione, portandole via ciò che aveva di più prezioso al mondo: Giulia, la sua bambina. Quel triste ricordo pungeva il suo cuore come una spina che non può essere letale, ma causa un dolore costante e che non trova sollievo.

Andare avanti era stato un cammino faticoso, disseminato di giorni vuoti e notti insonni. Più volte Anna aveva temuto di non farcela, finché, la notte dell’Immacolata di cinque anni prima, Giulia le apparse in sogno.  La bambina le aveva parlato con voce serena, invitandola a  non chiudersi nel suo dolore, bensì di farne tesoro. Le aveva chiesto di lasciare che il suo piccolo cuore d’argento divenisse faro di speranza per tutti coloro che vivevano, come lei, un momento difficile.

Da quel giorno, Anna,  ogni 8 dicembre, durante la cerimonia di inaugurazione, consegnava al comune la sfera argentata con inciso il nome della sua bambina, come simbolo di amore e di speranza, proprio come sua figlia le aveva detto di fare.

Anche quell’anno tutto avvenne secondo il solito cerimoniale: la folla applaudì, le luci si accesero e la sfera di Giulia venne collocata nel punto centrale del maestoso abete.

Il giorno successivo, però, accade qualcosa di sconcertante. 

Il maresciallo Luca Ferretti, seduto nel suo ufficio della stazione dei carabinieri, fu interrotto da un bussare deciso.

Era il proprietario del bar che dava proprio sulla piazza: il volto teso, la voce concitata. 

 -Maresciallo, la sfera d’argento. . . è sparita! -

Ferretti si precipitò sul posto. L’albero svettava ancora imponente, ma al centro mancava proprio quella sfera, il cuore simbolico della cerimonia.

Iniziò a interrogare i presenti: operai, commercianti, passanti. 

Tutti, guardandolo interdetti, rispondevano sempre allo stesso modo:

— Non abbiamo toccato nulla! —

Ritrovare l’oggetto sembrava un’ impresa ardua. 

Il maresciallo trascorse la mattinata a raccogliere testimonianze, finché non si fermò davanti alla bancarella di un’anziana signora che vendeva sfere di cristallo.

- Buongiorno, signora. Ha notato qualcosa di insolito nei pressi dell’albero? -

La donna aggrottò la fronte, riflettendo su per qualche istante.

- Ora che ci penso . . . alle prime luci dell’alba ho visto una figura muoversi con circospezione ai piedi dell’albero. Non saprei dire chi fosse -.

- La ringrazio, il suo aiuto è stato molto prezioso -.

Ferretti, ottenuta un’autorizzazione, si recò presso la banca che affacciava sulla piazza per visionare le registrazioni delle telecamere di sorveglianza che riprendevano anche la zona che accerchiava il maestoso abete.

Scorrendo le immagini, individuò una sagoma avvolta in un mantello scuro. L’uomo si avvicinava all’albero con passo lento, esitante, e con un gesto quasi devoto staccava la sfera argentata, riponendola con cura sotto il cappotto. Nessun segno di vandalismo, nessuna fretta: solo un’attenzione insolita, quasi affettuosa.

Quel comportamento destò in Ferretti una curiosità profonda. Decise di approfondire e, consultando vecchi rapporti e articoli di giornale, fece una scoperta sorprendente: ogni anno, puntualmente, la sfera veniva sottratta il giorno dopo l’inaugurazione e poi riconsegnata la mattina di Natale, senza che nessuno avesse mai compreso come o da chi.

Ma dove veniva portata, in quelle settimane di misteriosa assenza, la sfera d’argento di Giulia?

Girò a lungo per la cittadina, seguendo un’intuizione che lo conduceva, passo dopo passo, verso il luogo dove tutto aveva avuto inizio e fine. 

Quando varcò il cancello del cimitero, l’aria era immobile, intrisa di un silenzio che pareva sospeso tra la terra e il cielo.

Camminò tra le lapidi fino a trovare quella della piccola Giulia. Lì, accanto a un mazzo di fiori freschi, la sfera d’argento brillava sotto la luce pallida del mattino. Accanto, un biglietto piegato con cura recava poche parole, semplici e strazianti:

“Perdonami, perché non ho saputo salvarti. Brilla anche da lassù.”

Ferretti rimase immobile. Quelle parole, intrise di dolore e tenerezza, gli bastarono per comprendere. Non era stato un ladro a sottrarre la sfera, ma Marco, il pompiere che vent’anni prima aveva tentato invano di strappare la bambina alle fiamme.

Avvertì dietro di sé una presenza.

 Si voltò lentamente e lo vide: un uomo alto, il volto scavato dal tempo e dal rimorso, lo sguardo basso, come se portasse sulle spalle il peso di un’intera vita.

- Da quel maledetto giorno non trovo pace - disse Marco con voce roca - Giulia doveva vivere, e io non sono stato capace di salvarla dalle fiamme -. Fece una pausa, poi aggiunse, quasi sussurrando -Lei merita di brillare nella sua unicità, non di restare appesa fra le altre sfere - .

Ferretti lo osservò in silenzio. In quelle parole non c’era follia, ma un dolore puro  che cercava redenzione. 

Tornato in città, il maresciallo raccontò tutto ad Anna, la madre di Giulia. 

La donna lo ascoltò senza sorpresa.

Non aveva mai sporto denuncia, perché da tempo aveva intuito la verità.

- Vorrei incontrarlo -  disse con voce ferma ma dolce - Voglio ringraziarlo per la delicatezza con cui ha continuato a ricordare la mia bambina- .

La mattina di Natale, sotto l’albero illuminato nella piazza di Tivoli, Anna e Marco si incontrarono. Non servivano parole: bastò uno sguardo per colmare vent’anni di silenzio. Insieme, sollevarono la sfera d’argento e la riappesero al suo posto, al centro dell’albero, dove la luce la fece scintillare come una piccola stella.

Alle loro spalle, il maresciallo Ferretti osservava la scena con gli occhi lucidi. Dal cielo cominciavano a cadere fiocchi di neve leggeri come ovatta, e in quel momento, dopo molti anni, sentì che anche lui poteva finalmente perdonarsi per ciò che aveva perduto.



LA STELLA DI BETLEMME - Racconto di Giovanna Santarsiero

 



Oltre il caos travolgente della città si estendeva la terra che si tingeva di infinite sfumature di verde, da quelle più accese a quelle più cupe, che prendevano o perdevano brillantezza in base alla presenza della luce calda che il sole emanava. Fra tutto quel verde, intriso di vita animale, si espandeva un lago le cui acque riflettevano l’azzurro del cielo, alle volte terso e altre trapuntato di nuvole bianche gonfie come un simpatico zucchero a velo che si avvolge intorno ad un esile bastoncino di legno stretto fra le tenere mani di un bambino, e che celava segreti e misteri che il resto del mondo ignorava.

Era un posto che amavo particolarmente e che avevo scoperto per puro caso durante una delle mie consuete passeggiate nella natura, la mia via di fuga dalla frenesia della quotidianità cittadina che in un modo o nell’altro condizionava la mia tranquillità. In quel lago, la mente e l’anima trovavano rifugio per dare vigore alla pace di cui avevano tremendamente bisogno perdendosi nel silenzio come un bosco silente dopo una violenta pioggia tempestosa.

La mia vita scorreva normalmente, avevo una bella famiglia, molti amici, un  lavoro. Tutto normale, forse troppo normale con una tendenza alla monotonia, e nessuna novità all’orizzonte. Sul lavoro mi spendevo molto, eppure non riuscivo a fare l’ upgrade che immaginavo e poi mancava una figura, quella di un uomo al mio fianco. Le mie amiche erano tutte fidanzate ed io invece non lo ero. Dipendeva tutto da quei fastidiosi chiletti di troppo? Chissà!

Anche quel giorno decisi di immergermi nella natura e alleggerire la mia mente, da pensieri che potevano intaccare il mio equilibrio, e il mio corpo, nella speranza di bruciare quel grasso in eccesso che stava diventando un tarlo con il quale convivere diveniva sempre più difficoltoso.

In quel paesaggio meraviglioso il rumore chiassoso della città si spegneva e veniva sostituito dalla voce della natura come il cinguettio degli uccellini, il fruscio delle foglie mosse dal vento, il cigolio riprodotto dai rami e rumori che simpatici animaletti selvatici riproducevano muovendosi abilmente nel sottobosco. Percorsi alcuni metri di strada asfaltata, imboccai il sentiero naturale che si snodava fra gli alberi e che conduceva, dalla via principale, all’interno del bosco.

Dopo un breve tratto, si apriva dinanzi ai miei occhi una distesa verde al centro della quale maestoso primeggiava lui, il meraviglioso lago incantato. Lasciai che le iridi si impregnassero totalmente di quella meraviglia e tirando su con il naso, respirai a pieni polmoni quell’aria buona che mi rasserenava. Solo in un secondo momento  mi resi conto di non essere sola, infatti, in lontananza vidi un’esile donna, dai lunghi capelli rossi, che le cadevano giù, lungo le spalle, come una cascata e la cui pelle diafana, simile al candido bianco pallore della luna, era avvolta da un abito nero che scendeva morbido seguendo le curve della sua silhouette lasciando libere le gambe dalle ginocchia in giù e creando un armonioso contrasto con i suoi colori.

Con quelle luci rosee generate da un tramonto acceso, che sembrava un dipinto nato dalle virtuose mani di Van Gogh, la donna apparve ai miei occhi come una dea dalla bellezza disarmante capace di togliere il fiato.

La guardai con incanto, come una bambina stupita ed incuriosita che si trova di fronte un giochino nuovo,  senza farmi notare. Probabilmente era appena arrivata anche lei, magari da qualche altro sentiero di cui ignoravo l’esistenza. Restai affascinata dalla scena: si tolse delicatamente le scarpe e, tenendole in mano, iniziò ad avvicinarsi con passi lenti e felpati verso la riva. Mentre lo faceva guardava a terra, il capo chino e  un atteggiamento che trasmetteva uno strano senso di angoscia percettibile anche a metri di distanza. Quando la vicinanza con la riva si era accorciata a tal punto da separare i suoi piedi da quelle oscure acque solo un palmo di mano, la giovane donna, lasciò cadere svogliatamente al suolo le scarpe, che teneva fra le mani, quasi come fossero un gravoso e ingombrante fardello e con esse si lasciò cadere anch’ella per entrare in contatto con l’umida erba che segnava il confine. Si sedette dolcemente e avvicinò le ginocchia al petto, stringendole a sé in un abbraccio, come a volersi avvolgere da sola in un gesto di conforto capace di poterla risollevare da quell’angoscia a cui non riuscivo a dare un nome o una spiegazione. Come potevo dopotutto? Non conoscevo affatto quella donna che aveva comunque attirato totalmente la mia attenzione.

Di fronte a quella visione mi sentii di troppo e allora decisi di andare via e di proseguire il mio cammino seguendo un percorso alternativo a quello programmato. La passeggiata durò di conseguenza meno del previsto, avendo eliminato la consueta pausa al lago che si prendeva parte del mio tempo, pertanto approfittai per fare un bel bagno caldo prima di cena.

Non riuscivo ad accantonare quello che mi era capitato al lago. Era mia abitudine leggere un buon libro prima di addormentarmi, almeno un capitolo me lo imponevo per non perdere quella bella abitudine che coltivavo sin da bambina, nonostante gli anni di studio e la stanchezza accumulata a lavoro. Tuttavia, malgrado la buona volontà, una volta poggiata la testa sul morbido cuscino, guardai il soffitto e l’immagine di quella bellissima donna avvolta da una tristezza disarmante fece capolino fra i miei pensieri, portando con sé alcune domande spinte dalla mia solita curiosità.

Cosa poteva esserle accaduto? Una donna così bella come poteva essere così sola e triste?

Con questi quesiti i miei occhi si chiusero lentamente trascinandomi fra le braccia di Morfeo, pronto a condurmi in un sonno ristoratore e verso sogni fantasiosi.

 

Nei giorni successivi andai quotidianamente al lago e puntualmente la scena a cui avevo assistito giorni prima, si ripeteva nuovamente seguendo la medesima sequenza. La ragazza arrivava lì al calar del sole e si accomodava su quella riva per perdersi con lo sguardo fra quelle acque alla ricerca di chissà cosa.

Un giorno, però, mi avvicinai di più e nel farlo produssi involontariamente un rumore che, seppur quasi  impercettibile, riuscì comunque ad attirare l’attenzione della donna che inevitabilmente si voltò verso di me. A quel punto uscii allo scoperto e cercai di inventare una scusa plausibile.

«Scusami tanto, passavo qui per caso non volevo disturbarti!» le dissi banalmente.

«È un luogo pubblico, non devi assolutamente scusarti con me» mi rispose.

Ebbi la sensazione di non infastidire, forse dalla dolcezza che riconobbi nella sua voce e di come si fosse posta verso di me e così mi avvicinai lentamente verso di lei accomodandomi al suo fianco.

«Mi chiamo Lidia ehm . . . ad essere sincera, non è la prima volta che ti trovo qui. Sono diversi giorni ormai che mi dirigo  al lago. È un posto che amo particolarmente perché mi da pace. Così mi è capitato di trovarti e ti ho sempre guardata da lontano. La tua bellezza non passa inosservata ma emerge anche altro. Perché sei così triste?»

La giovane donna, che da vicino risultava essere anche più bella di come appariva in lontananza, posò i suoi occhi scuri nei miei sviluppando ulteriormente l’empatia che in qualche modo avevo già innescato nei suoi confronti, in maniera del tutto inspiegabile. Con un amaro sorriso mi chiese.

«Hai notato la mia tristezza per via del colore dell’ abito che indosso?»

Rimasi sorpresa da quella domanda. Perché mai un capo di abbigliamento doveva trasmettere necessariamente un’emozione così netta?

«Ovviamente no!» risposi «Ho percepito la tua sofferenza dal tuo atteggiamento e per come te ne stai qui, in riva a questo lago, con lo sguardo fisso in un punto preciso e ora che ti sono vicina, nei tuoi occhi c’è un velo che offusca quella luce che generalmente dovrebbe esserci»

Lei mi guardò intensamente ancora una volta prima di riportare lo sguardo verso il lago.

«Quella luce c’è lì dove esiste la speranza, la gioia, la vita . . . nei miei occhi non la noti perché sono tremendamente triste e questo perché la vita mi ha dapprima dato tanto e poi mi ha tolto tutto»

Dopo aver dato quella risposta vaga, ma intrisa di dolore e malinconia, la giovane donna dai capelli rossi piombò nuovamente in un silenzio assordante, un chiaro segnale di chiusura. Dopotutto perché mai avrebbe dovuto raccontarmi qualcosa di così intimo e personale? Ero solo una sconosciuta in fondo.

«Non so la ragione della tua sofferenza ma posso dirti che mi dispiace molto!» le dissi, come se fosse necessario farlo.

Restai lì, al suo fianco ancora per un po', guardando il suo riflesso in quello specchio acquoso e cercando di darle presenza e conforto. Nel silenzio mi levai lentamente, come a non voler inquinare, con bruschi rumori, quello stato silente di pace e andai via lasciandola sola, immersa nei suoi pensieri. Aveva bisogno di attraversare il suo dolore nella sua intimità.

Tornai verso casa ripensando a lei costantemente e soprattutto a quelle parole “la vita mi ha dato tanto ma mi ha tolto tutto”.

Serve davvero etichettare ogni emozione per comprenderne l’intensità?

La risposta è no, perché, seppure non conoscessi la storia di quella giovane donna la sua sofferenza aveva toccato la mia sensibilità, come un un’arpista sfiora delicatamente e con maestria le corde del suo strumento producendo una melodia capace di arrivare dritta all’anima di chi ascolta, facendola vibrare. Inevitabilmente pensai a come sia curioso l’essere umano. Quante volte su questioni spicciole e di poco conto riusciamo a ricamarci improbabili quanto insormontabili tragedie che non hanno nulla a che spartire con la drammaticità di lotte interiori che molte persone sono costrette ad affrontare nella propria vita, nonostante il mondo continui inarrestabile la propria corsa, fregandosene se le ginocchia sono a terra e rialzarsi risulta complicato se non impossibile?

Spesso mi lamentavo della mia fisicità, dell’essere ancora single e adesso mi rendevo conto di quanto fossi frivola nel fare di questi piccoli problemi un’Odissea.

 

Seppure l’empatia sia una caratteristica predominante nel mio carattere e quella donna aveva catturato i miei pensieri, resto pur sempre un essere umano e va da sé che, inevitabilmente, con lo scorrere dei giorni la quotidianità mi  prese totalmente con i suoi ritmi frenetici portandomi lontana da quei pensieri e di conseguenza le mie attenzioni si incanalarono tutte verso un’altra direzione.

Diversi furono i cambiamenti che si mostrarono all’orizzonte, come se quell’incontro al lago fosse stato il via di un capovolgimento radicale della mia vita.

Senza rendermene conto, a distanza di un anno,  la mia vita migliorò notevolmente: ottenni, dopo anni di sacrifici fatti senza remore e ripensamenti, una promozione nello studio associato di avvocati in cui lavoravo, mi iscrissi in una palestra non molto distante da casa e con un programma di allenamento mirato migliorai anche il mio aspetto fisico e infine, non per ordine di importanza, avevo finalmente trovato Aurelio, un ragazzo speciale che aveva conquistato il mio cuore sin da subito e che mi regalava tutto l’amore di cui avevo bisogno. Insomma, tutto scorreva meravigliosamente bene, come se le stelle si fossero finalmente posizionate in cielo a mio favore aprendomi una per una tutte le porte propizie. Mi sentivo realizzata e soddisfatta della mia vita, dei traguardi raggiunti e di quello che stavo diventando non trovando più alcuna ragione a cui aggrapparmi per potermi lamentare.

Tuttavia, la felicità umana è come l’ombra prodotta dalla luce del giorno che svanisce con l’arrivo della sera e anche il mio momento di gloria stava per volgere al termine. Il destino aveva in serbo per me una dura prova da superare.

Tutto avvenne in una giornata di inizio estate, era il 26 giugno, il giorno prima del mio compleanno.

Quella mattina il cielo era di un azzurro terso e il sole brillava già alto nel cielo. Erano le 09:00 del mattino e in auto con Aurelio, che quella mattina aveva deciso di accompagnarmi, stavo per iniziare come di consueto una nuova giornata di lavoro, l’ultima di quella settimana. Giunti di fronte allo studio in cui lavoravo mi voltai verso di lui.

«Ci vediamo a pranzo amore, così possiamo poi partire per il nostro weekend!»

«Certo amore. Buona giornata!» mi disse con un sorriso smagliante, quel sorriso che mi aveva conquistata sin dal nostro primo appuntamento e che non resistetti dal baciare dolcemente in quel momento. Lo amavo davvero tanto e questo perché mi capiva, mi ascoltava e mi regalava tutte le attenzioni che avevo da sempre desiderato ricevere.

Scesi dall’auto, chiusi la portiera e avvertii la necessità inspiegabile di salutarlo ancora e così lo feci prima di voltarmi e incamminarmi verso il portone principale dello studio.

Feci appena due passi quando sentii all’improvviso un botto violentissimo che fece vibrare l’aria intorno a me. Mi voltai e dinanzi i miei occhi si palesò una scena agghiacciante a cui mai e poi mai avrei voluto assistere. Un’auto impazzita si era schiantata frontalmente contro quella del mio Aurelio.

Buio.

Mi portai le mani sul viso e urlai con tutta la forza che avevo in corpo. Mi diressi verso l’auto ma la portiera non voleva saperne di aprirsi. Chiamai velocemente i soccorsi in cerca di un aiuto umano ma soprattutto dal cielo.

Di quello che accadde poi ricordo solo il suono delle sirene impazzite dell’autoambulanza che ci conducevano dritti all’ospedale, lui su di una barella, la corsa in sala operatoria, le mie lacrime inarrestabili, le infinite preghiere pronunciate sottovoce e l’attesa interminabile. Il tempo era lento e a tratti sembrava quasi volesse fermarsi del tutto.

Poi il medico, che aveva operato Aurelio, il mio Aurelio, uscii dalle porte scorrevoli automatiche della sala operatoria con lo sguardo scuro in volto.

«L’intervento è andato bene»

«Oh! Grazie al cielo!» dissi con un cenno di speranza nella voce che venne immediatamente spazzato via dalle parole che il medico pronunciò immediatamente poi.

«Signora,le condizioni di Aurelio sono critiche. Verrà trasferito in terapia intensiva sperando che superi la notte. Noi abbiamo fatto il possibile, adesso attendiamo solo un miracolo. Deve essere forte e iniziare a preparasi al peggio. Mi dispiace!»

Mi diede una pacca sulla spalla trasmettendomi tutta la sua solidarietà con lo sguardo, uno sguardo che non ho mai più dimenticato.

Sentii mancare la terra sotto i miei piedi. Quelle che seguirono furono ore di panico e dolore, un dolore che non riuscivo a quantificare né tantomeno a descrivere. Le lacrime continuavano a scendere copiose dagli occhi rigando il viso di sale amaro e stare in quel corridoio gelido in attesa di un miracolo mi mandava letteralmente in confusione. Milioni di domande e nessuna risposta. L’aria mancava e alternavo momenti di speranza a quelli di folle angoscia che mi facevano pensare al peggio e allora mi sentivo sprofondare.

In quel momento comparve, fra i miei veloci pensieri confusi, l’immagine della donna dai capelli rossi. Avvertii la necessità di raggiungerla e così mi diressi al lago. Il tramonto stava esplodendo e la trovai lì, come un anno prima, seduta a guardare quelle acque che conoscevano probabilmente il perché della sua sofferenza. Tolsi dai miei piedi le scarpe, proprio come faceva di consueto lei, mi avvicina e poi mi accomodai al suo fianco in silenzio.

«Ti aspettavo» mi disse senza voltarsi.

«Ah si?» domandai incuriosita.

«Si» fu la sua unica risposta mentre continuava ad osservare un punto preciso.

Restammo per qualche minuto in silenzio, un silenzio diverso da quello del nostro primo incontro, un silenzio complice. Guardai il mio riflesso in quello specchio d’acqua. Il mio viso era contratto dal dolore, dal terrore, i miei occhi erano gonfi dopo aver versato tutte le lacrime che avevo in corpo. Notai solo in quel momento la similitudine dei nostri sguardi entrambi persi e con quel velo che nascondeva tutto il resto. A quel punto fui io a spezzare quell’incantesimo.

«Non so nemmeno quale sia il tuo nome e nemmeno quale possa essere la tua storia eppure in te io mi riconosco, soprattutto adesso».

A quelle parole lei mi guardò e i nostri occhi si incontrarono come se quel momento fosse stato scritto dal destino.

«Mi sono sempre chiesta quale fosse la pena che portavi dentro, almeno l’ho fatto per un po'. La mia vita dal nostro incontro è cambiata sai? È migliorata. Ho avuto tutto, una promozione sul lavoro, un uomo speciale. Si chiama Aurelio. È meraviglioso» iniziai a piangere.

Lei mi guardò con dolcezza e mi accarezzò le spalle come farebbe una sorella ma rimase in silenzio.

«Stamattina ha avuto un incidente d’auto, dinanzi i miei occhi. È stato orribile. Ho provato e provo tuttora un dolore disumano. Non so se potrò abbracciarlo ancora, se si sveglierà. Fa tutto così male»

«Lo so bene» disse lei con una calma disumana e proseguì  «Sei una persona sensibile. Hai notato la mia sofferenza da subito, a differenza di altre persone a me care che hanno visto in me debolezza ed esagerazione. Ma vedi, nella gioia e nella normalità le persone vivono senza badare troppo all’importanza della vita, dell’amore, della possibilità di avere persone accanto che ad altri è negata. Solo chi ha un animo sensibile può immedesimarsi nel prossimo altrimenti siamo tutti diversi. Quello che ci rende simili, invece, è il dolore. Quando arriva appiana le montagne e ci fa vedere oltre, ci mostra esattamente cosa voglia dire sentire un gelo nel petto che nemmeno un fuoco ardente può smorzare, sentire un groppo alla gola che non permette di deglutire nemmeno la saliva. È sentirsi bruciare dentro e voler porre fine a quel dolore che il tempo non potrà mai cancellare. Il dolore mostra a tutti la vera essenza dell’altro e ci mostra come, seppur diversi, in quel sentimento, capace di toglierci la voglia di vivere, reagiamo tutti allo stesso modo»

Ci guardammo in silenzio. Lei aveva capito esattamente cosa stessi provando. Era proprio quella sensazione.  In un attimo la mia mente tornò indietro di un anno e ripensai alle sue parole. “La vita mi ha dato tanto e mi ha tolto tutto”.

Prima che potessi chiederle cosa le fosse accaduto lei proseguì come se mi avesse letto nel pensiero.

«La mia amarezza è dovuta alla perdita dell’amore della mia vita. Venimmo un giorno qui, al lago per trascorrere un giorno diverso dal solito. Prendemmo un pedalò e iniziammo a fare un giro. Era tutto perfetto, il sole, il cielo terso e noi due, felici e spensierati. Consumammo la merenda al tramonto e all’improvviso si alzò il vento che fece volare via il foulard poggiato intorno al mio collo. Ero legata a quel foulard perché era di mia madre, deceduta prematuramente. Cercai di afferrarlo ma non riuscii a recuperarlo.

Allora Daniele, il mio amato, fece di tutto per portare in salvo quell’oggetto a me caro, se non fosse che cadde nelle profonde acque del lago. Cercai di aiutarlo ma non riuscii a fare nulla. Non sapevo nuotare. Daniele era rimasto impigliato in qualcosa e nonostante le urla nessuno corse ad aiutarci. Solo dopo diverso tempo arrivarono i soccorsi ma fu troppo tardi.»

Silenzio.

Adesso era tutto molto chiaro. Quello che stava accadendo a me lei lo aveva già subito con un epilogo tragico e irrimediabile.

«Io . . . mi dispiace molto. Come hai potuto sopravvivere a tutto questo?»

«Non lo so . . . la fede? La forza di sopravvivenza umana? La mancanza di coraggio nel fare un gesto estremo? Non te lo so dire questo. Sono qui, con la speranza che dal dolore possa nascere qualcosa di buono e probabilmente in te ho trovato proprio questo. Adesso va dal tuo Aurelio. La vostra storia deve avere un finale diverso»

Ci abbracciammo piangendo entrambe per i nostri dolori ma anche per la prova che l’altra stava affrontando. Tornai in ospedale e in quel momento di buio la luce. Aurelio era miracolosamente tornato alla vita, era salvo. La gioia che provai fu immensa e indescrivibile, della stessa portata di quel dolore che nelle ore precedenti aveva devastato ogni parte di me. Accarezzai il volto del mio amato e stetti al suo fianco sempre.

Quando tornammo a casa mi presi qualche giorno per sistemare tutto e organizzarmi.

I medici non seppero mai spiegarci come Aurelio fosse tornato alla vita. Qualcosa mi fece pensare che la responsabile di quella magia fosse lei, la donna del lago.

Un giorno attesi l’arrivo del tramonto e mi diressi  al lago nella speranza di incontrarla per raccontarle tutto e di porle alcune domande.

Quando arrivai lì della ragazza dai capelli rossi non c’era nemmeno l’ombra, bensì al posto in cui sedeva di consueto era nata la stella di Betlemme, un fiore bianco come la pelle diafana di quella donna che aveva accolto, compreso il mio dolore, nonostante stesse attraversando elle stessa una pena maggiore della mia. Che strana coincidenza pensai fra me.

Tornata a casa capii il significato di quel fiore.

Rappresentava la consolazione del dolore e la capacità di guarire da eventi tragici che la vita pone sul nostro cammino. Sorrisi. Probabilmente quel fiore rappresentava la rinascita per entrambe o forse quella donna era un’entità misteriosa che il destino aveva in mente di farmi incontrare per darmi un importante insegnamento. Chissà, questo non si saprà mai. Tuttavia, da quel giorno, continuai ad andare al lago a prendermi cura di quel fiore e a sedermi lì, accanto a lui, osservando quelle acque in ricordo di quell’incontro che mi ha cambiato la vita e che mi ha insegnato la resilienza della luce della rinascita, incapace di spegnersi e di come il dolore ci rende tutti umani.

 


 


𝐹𝑜𝓁𝓁𝑒, 𝒻𝑜𝓁𝓁𝑒, 𝒻𝑜𝓁𝓁𝑒 𝒹𝒾 𝒶𝓂𝑜𝓇𝑒 𝓅𝑒𝓇 𝓉𝑒 - Alda Merini

 


“ Io sono folle, folle,

folle di amore per te.

Io gemo di tenerezza

perché sono folle, folle,

perché ti ho perduto.

Stamane il cielo era sì caldo

che a me dettava questa confusione,

ma io ero malata di tormento

ero malata di tua perdizione.”

 

Con questa poesia tratta da “Folle, folle,folle di amore per te”, che ha anche ispirato il film “Folle d’amore per te” di Roberto Faenza, mi accingo ad esprimere le mie impressioni su questa silloge di Alda Merini, un inno alla sua intramontabile  capacità di fare poesia che segna positivamente il cuore di chi entra in connessione con i suoi versi.

Versi conosciuti e inediti della grande maestra che mostrano l’amore, non tanto come una cura, ma come una condizione stessa che l’essere umano prova, nel suo essere così grandioso quanto angoscioso.

In lei, l’amore e la follia, sono coordinate immancabili che hanno condizionato la sua carriera letteraria. Lei, così dannatamente sé stessa e quella sua immensa capacità di amare fino a scomparire nell’altro.

In un’intervista Alda Merini definì folli i normali, un’espressione che nel corso degli anni ho fatto mia, in quanto la vera follia è la paura di non lasciarsi andare e varcare quella soglia che permette di vedere oltre i paletti della realtà,  tuffarsi nell’immenso mondo artistico della fantasia e dell’immaginazione.




In queste 40 poesie presenti nella silloge, che contiene in apertura un intenso pensiero di Roberto Vecchioni, emerge questo attaccamento all’amore della poetessa, come gli effetti collaterali di un sentimento così forte e il timore dell’abbandono, perché la vera “pestilenza è la mancanza di esso”.

Un gioiello questa raccolta, che va letta, riletta, regalata, assaporata . . . un viaggio attraverso la poesia in cui riconoscere sé stessi in quei sublimi versi che accarezzano l'anima in un modo così unico speciale che solo Alda riesce a fere.


Giovanna Santarsiero

 

 


𝕴 𝖗𝖆𝖈𝖈𝖔𝖓𝖙𝖎 𝖉𝖊𝖑 𝖙𝖊𝖗𝖗𝖔𝖗𝖊 - recensione a cura di Rosa Pace

In questi giorni in cui le ombre si allungano e il vento sussurra tra le foglie d’autunno, ho deciso di tornare a leggere il padre dell’horror, il vero maestro del terrore psicologico: Edgar Allan Poe.
Il suo libro "I racconti del terrore" non è solo una raccolta di storie macabre è un viaggio nella mente umana, nei suoi abissi più oscuri e affascinanti.

Poe ha un modo di scrivere che, almeno per me, è unico e irripetibile. Ho letto Lovecraft, ho letto Bram Stoker, ma nessuno riesce a trasmettere la paura interiore, quel senso di inquietudine sottile e quasi poetica, come fa lui. Le sue parole sembrano un incantesimo, capaci di far emergere paure che forse non sapevamo nemmeno di avere.

La sua stessa vita, segnata da mistero, dolore e genialità, sembra riflettersi in ogni riga delle sue opere. È come se ogni racconto fosse un frammento della sua anima tormentata.

Tra le storie più famose, “Il gatto nero” resta un capolavoro assoluto: un racconto che scava nella follia, nel senso di colpa e nell’autodistruzione umana. È inquietante, ma anche profondamente umano, tanto che chi legge non può che rimanere turbato e affascinato dal riflesso oscuro di sé stesso che Poe riesce a evocare.

Eppure, il racconto che più mi ha colpito è “L’insetto d’oro”. Forse meno cupo, ma incredibilmente geniale e misterioso, un intreccio di enigmi e intuizioni che mostra tutta l’intelligenza e l’originalità di Poe. Se non avete tempo di leggere tutta la raccolta, vi consiglio almeno questo: “L’insetto d’oro” vale da solo l’intero viaggio nel mondo di Poe.

In definitiva, I racconti del terrore non sono solo storie da leggere, ma esperienze da vivere, magari proprio in una notte d’autunno, con la pioggia che batte alla finestra e una candela accesa accanto al libro.

 Perché leggere Poe significa guardare dentro l’abisso e scoprire che, a volte, l’abisso ci sta guardando.

L’ultima cioccolata di Babbo Natale - di Giovanna Santarsiero

  11 dicembre 2025. Avvolta da maestose montagne mozzafiato e da boschi che paiono usciti da un racconto incantato, Castelrotto è in trepi...